Documento dall'Università su Appunti per capitolo sul libro “Dante” di Alessandro Barbero. Il Pdf analizza il libro "Dante" di Alessandro Barbero, approfondendo la partecipazione di Dante alla battaglia di Campaldino, il suo rapporto con la nobiltà e l'esilio, con un focus su Cacciaguida e i Malaspina, utile per Letteratura a livello universitario.
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Il capitolo si apre raccontando un evento iniziato sabato 11 giugno 1289. Nel giorno di San Barnaba del 1289, l'esercito Fiorentino, che marciava attraverso il Casentino per invadere il territorio di Arezzo, giunse in vista del castello di Pioppi. L'esercito era partito nove giorni prima da Firenze e solo in quel giorno, dopo aver percorso circa cinquanta chilometri lungo tortuosi sentieri di montagna, si trovò a metà tra Firenze ed Arezzo. Davanti al castello di Pioppi si estendeva una pianura, chiamata Campaldino, e proprio lì i nemici attendevano l'esercito fiorentino. Successivamente, si parla di come venne schierato l'esercito da dodici capitani della guerra, che erano stati scelti tra i cavalieri più esperti in quelle faccende, in rappresentanza di ognuno dei sei rioni in cui era divisa Firenze, anche se alla fine, le decisioni più importanti venivano prese dai capi dei contingenti delle città alleate, cioè i baroni, che avevano scelto di schierarsi con i fiorentini e di cui tutti rispettavano le decisioni come, per esempio, Maghinardo da Susinana. La forza d'urto dell'esercito era formata dalla cavalleria, armata di lancia e spada e coperta di ferro, e i 150 cavalieri formavano la prima schiera, ovvero ricoprivano la posizione più pericolosa. Poi, venivano i volontari e alle spalle dell'avanguardia c'era il grosso della cavalleria, più indietro venivano schierate le salmerie, che creavano una barriera che non permetteva alla cavalleria di scappare. Il resto era formato dai contadini, che combattevano come fanti a piedi, armati di lancia, o come tiratori di arco o di balestra. Tra loro, poi, c'erano anche i pavesi, che reggevano ingombranti scudi in legno, piantati a terra e dietro i quali si poteva riparare la fanteria e la balestra, che, invece, erano stati schierati sulle ali. Tra quei feditori, cioè i cavalieri schierati in prima fila c'era Dante. Il primo che ci racconta della partecipazione di Dante nella battaglia di Campaldino è l'umanista Leonardo Bruni, che nel 1436 scrisse "Vita di Dante", al contrario di Boccaccio, che, addirittura, viene rimproverato dal Bruni proprio perché nella biografia, che lui scrive su Dante, tralascia questo dettaglio per concentrarsi su altri argomenti. Sebbene il Bruni sia uno scrittore aretino postero alla battaglia, decide di parlarne ed anche con una certa insistenza perché il ricordo era ancora molto vivo visto che aveva contribuito in modo decisivo all'egemonia di Firenze in Toscana. Dunque, per il Bruni la partecipazione di Dante era qualcosa di più di un semplice dato biografico, ma anzi gli serviva per dimostrare che, nonostante l'enorme dedizione negli studi, Dante era un giovane come tutti gli altri, che non viveva fuori dal mondo, ma che era pronto a schierarsi quando eventualmente la patria lo richiedesse. Il Bruni lo sapeva perché l'aveva letto in una lettera di Dante, nella quale racconta e disegna la battaglia. La lettera non è arrivata fino a noi, ma senza dubbio non dubitiamo del Bruni, che conosceva moltissime lettere di Dante tanto da saper descrivere precisamente la sua calligrafia. Ciò è confermato anche perché nelle sue stesse opere abbondano i riferimenti a quest'importante battaglia. Troviamo questi riferimenti: nel "Convivio", in un passo in cui ripercorre l'evoluzione dei desideri umani, in un'epistola scritta mentre è in esilio e in cui si lamenta di non possedere più armi e cavalli, e anche in numerosi passi de "La Commedia". Un altro tema importante, che viene trattato, è quello della paura che il cavaliere deve avere in battaglia. Infatti, i cavalieri esperti sono quelli che hanno paura del combattimento perché sanno bene che cosa gli aspetta una volta schierati ed è proprio per questo preciso motivo che Dante stesso non si vergogna di parlarne, al contrario del Bruni che invece decide solo di accennarlo.
Nel capitolo precedente, è stato ricostruito un importante episodio della vita di Dante, che si è concluso con la nominazione di alcuni cavalieri. Dante, però, non è tra coloro che vengono nominati e, quindi, ci viene spontaneo chiederci quale rapporto e pensiero Dante avesse con la nobiltà. Si parte dal presupposto che essere nobile non significava detenere un qualche titolo giuridico, accertato e verificabile, ma aveva a che fare con l'antichità della famiglia e con il rispetto che questa suscitava in città. Infatti, chi poteva vantare solamente sui propri antenati poiché non possedeva alcuna ricchezza suscitava pietà e derisione. Sappiamo con certezza che per Dante questa della nobiltà era una questione importantissima, da cui dipendevano la sua collocazione nella società fiorentina ed i rapporti con i suoi migliori amici. L'importanza di questa questione è subito verificabile nel canto X dell'Inferno, quando Dante incontra un esponente degli Uberti, una delle consorterie più antiche di Firenze. Infatti, l'esponente, che non conosce Dante, per prima cosa gli chiede da che antenati egli discenda. Tuttavia, la sua idea di nobiltà, ovvero l'importanza di avere degli antenati, cambia in modo radicale durante tutta la sua vita e spesso assistiamo a molte riflessioni su idea contrastanti. Nelle "Dolci Rime", che dopo il suo esilio commenta nel "Convivio", Dante dichiara che la nobiltà di sangue non esiste, poiché per lui essere nobili significava essere nati con la predisposizione alla virtù, alla pietà, alla misericordia e al valore e questo è un dono che appartiene ai singoli individui e non alle famiglie. Dante, sa bene che questa sua affermazione è valida solo con i letterati, poiché per il volgo, che non ragiona, ma latra, la nobiltà è l'appartenenza ad una famiglia,che è ricca da molto tempo e la sua virtù non c'entra niente. Successivamente, Dante gioca sull'equivoco tra la nobiltà come la intende il mondo, e la nobiltà come la intende il moralista e finge che sia la stessa cosa, concludendo il suo discorso, affermando che, in nessun caso, la nobiltà può avere a che fare con il ricordo degli antenati. Essa è un'affermazione molto drastica se si tiene conto del pensiero che adotta nelle "Dolci Rime" e nel "Convivio" e perciò è anche difficile arrivare al vero motivo, che lo ha condotto a tutto questo. Le ipotesi possibili sono tante, ma a noi basta sapere che, se Dante ha avuto voglia di commentare "Dolci Rime" nel "Convivio", quando ormai era in esilio, confermando punto per punto la posizione teorica, che aveva espresso prima, è perché quella posizione non rispecchiava una contingenza politica così precisa, ma una situazione esistenziale. La situazione esistenziale di un giovane uomo che si sentiva di appartenere, spiritualmente, ad un'élite, ma che non era troppo orgoglioso dei suoi parenti per pretendere di essere un nobile di sangue. Nella "Monarchia", invece, afferma che si può essere nobili per due motivi: o perché si è virtuosi o perché i propri maggiori (=antenati) sono stati nobili; da questa nobiltà indiretta si eredita e ci vengono conferiti i diritti. Questa affermazione è ancora una volta una contraddizione se si considerano i suoi vecchi ragionamenti, ma non lo è se, invece, consideriamo la ragione per cui lo dice. Infatti, al Dante, che scrive "Monarchia", interessa esaltare la figura di Enea e con questo suo ragionamento può concludere che il capostipite dell'impero è stato nobile tanto per la propria virtù, quanto per quella dei suoi antenati e, addirittura, anche da quella tratta dai matrimoni prestigiosi. Passano, poi, molti anni e Dante, impegnato con la stesura del "Paradiso", tralascia per un po' la questione sulla nobiltà. La riprende, però, quando la sua vita è profondamente cambiata, ovvero quando si trova nelle corti di Romagna e della Marca. In questo periodo della sua vita, Dante non ha più voglia di giocare al moralista, che ride della nobiltà di sangue tanto ammirata dal popolo, ma preferisce poter dichiarare, per bocca di Cacciaguida, il suo trisnonno, che anche la sua famiglia è antica. Questa è la prima volta che Dante ragiona sull'argomento riferendosi alla sua famiglia, ma, alla fine, quello che conta da vero è poter sapere che anche gli Alighieri, il cavaliere in famiglia lo hanno avuto. Questo è ribadito anche dai commentatori trecenteschi, che riferendosi a Cacciaguida lo chiamano sempre "messer", calcando molto sull'appellativo. È, dunque, grazie a quel "messer" che Dante può dichiarare di essere un nobile. Segue, poi, uno di quei momenti straordinari in cui Dante, osservando sé stesso dall'esterno, sorride della propria debolezza perché è una debolezza gloriarsi della propria nobiltà di sangue. Questa cosa l'autore del "Convivio" e l'ammiratore del Guinizzelli non l'ha dimenticata, ma comunque sorride perché questa è una debolezza che accomuna tutti gli uomini e che, quindi, deve far sorridere e non deve indignare perché, in fondo, è così che va il mondo.
Una pergamena dell'Archivio di Stato di Firenze attesta che il 28 aprile del 1131 Gerardo, figlio di Benzone, e la moglie Gasdia, figlia di Gesualdo, danno in affitto al nipote Brodario, figlio di Rodolfo, una casa col terreno circostante, accanto al monastero della Badia Fiorentina, nel centro di Firenze; fra i testimoni che con la loro presenza convalidano il contratto si legge il nome di Cacciaguida, figlio di Adamo (=Cacciaguide filii Adami). Questa potrebbe essere la conferma dell'esistenza del trisnonno di Dante e scopriremmo anche il padre del trisnonno di Dante, Adamo, che il poeta non conosceva; la zona della Badia è quella in cui poi si stabilirà la famiglia degli Alighieri e questa potrebbe essere un'altra conferma. Infine, è interessante notare che Gerardo era il fratello di Uberto giudice, progenitore degli Uberti, anche loro abitanti di quel quartiere e, sapendo che la gens degli Uberti era molto importante a Firenze, deduciamo che Cacciaguida era in contatto con i vertici della società cittadina. In precedenza, avevamo affermato che Cacciaguida era un cavaliere, ma Dante non sa delle enormi differenze, che consistevano nell'essere cavaliere nel periodo della vita del suo avo rispetto alla sua. Nell'epoca di Dante essere cavaliere vuol dire essere addobbato con una cerimonia che si ripercuote sulla vita politica della famiglia, che non poteva partecipare a nessuna attività politica, dal momento che Firenze era amministrata da un governo popolare; mentre essere cavaliere nell'epoca di Cacciaguida significava solo essere in grado di possedere armi e cavalli. In conclusione, l'ultima certezza che abbiamo per affermare che Cacciaguida era il trisnonno di Dante è che i suoi fratelli si chiamano Moronto ed Eliseo, nomi che Dante gli fa dire nel XV del Paradiso.
Dopo cinquantotto anni emerge un altro documento che riguarda gli antenati di Dante. L'articolo è datato 9 dicembre 1189 dove i figli del fu Cacciaguida promettono di tagliare il fico, che sta danneggiando il muro della chiesa. Insomma, un articolo, che ci racconta che anche all'epoca le controversie con i propri vicini erano all'ordine del giorno, soprattutto se vicino a te c'era una chiesa; infatti, lo stesso vescovo era impegnato in una lite con i Donati, già al tempo importante famiglia fiorentina. L'unico altro documento in cui compare Alaghieri risale al 14 agosto 1201; esso è un atto pubblico che riguarda il comune, a non si sa che proposito, ma sappiamo che Alaghieri era lì come testimone. Da tutto ciò traiamo che gli avi di Dante rivestivano un certo livello, anche se questo non bastava ad entrare nella cerchia delle cinquanta famigli aristocratiche fiorentine. Alcune allusioni che Dante mette in bocca al trisnonno permettono di ipotizzare che Alaghieri avesse fatto un matrimonio importante; Infatti, si era imparentato con uno dei personaggi più influenti nella