Didattica speciale per l'educatore socio-pedagogico: inclusione e ruolo

Documento dall'Università degli Studi di Genova su didattica speciale per l'educatore socio-pedagogico. Il Pdf esplora l'inclusione sociale, il funzionamento e la disabilità secondo ICF e Capability Approach, definendo il ruolo dell'educatore professionale in Psicologia per l'Università.

Mostra di più

12 pagine

Riassunto 1 - Didattica speciale per l'educatore
socio-pedagogico
Pedagogia speciale (Università degli Studi di Genova)
Riassunto 1 - Didattica speciale per l'educatore
socio-pedagogico
Pedagogia speciale (Università degli Studi di Genova)
lOMoARcPSD|1644929
Didattica speciale per l’educatore socio-pedagogico - Lucio Cottini
1. La prospettiva dell’inclusione sociale: ospitare o includere?
Negli ultimi decenni il percorso i persone con disabilità è fortemente migliorato, sebbene si
potrebbe obiettare che non sia abbastanza: in ogni caso è innegabile che ci siano stati dei netti
miglioramenti rispetto al passato. La prospettiva con cui guardare la realtà oggi dovrebbe essere
quella del binomio ospitalità-inclusione: qual è la differenza? La prima non rende parte di un
contesto le persone, ma semplicemente le fa sentire a loro agio nel luogo in cui sono, pur non
rendendoglielo - di fatto - proprio. La seconda, invece, mira proprio a rendere la scuola, i negozi,
qualunque parte del mondo un luogo che possa dirsi tanto dei neurotipici quanto dei neurodiversi.
Come viene concepita la disabilità rispetto al resto del mondo? Il fatto che i soggetti disabili
abbiano difficoltà nel vivere del mondo non dipende dalla loro disabilità, ma dal fatto che
statisticamente il mondo sia composto da persone “normali” e di conseguenza il mondo sia costruito
a immagine delle persone “normali”. Se il mondo fosse stato prevalentemente disabile, oggi i
cosiddetti “normali” avrebbero grandi difficoltà a viverci. Di fatto, la prospettiva moderna cerca di
trasmettere questo messaggio, ovvero che i problemi non sono dei disabili, ma degli ambienti e
delle persone che non sono in grado di accoglierli. Nella Convenzione sui diritti delle persone con
disabilità delle Nazioni Unite del 2006 vengono analizzati ambiti diversi, legati ai diritti umani:
Alla vita, allo sviluppo, alla libertà, all’espressione e alla sicurezza personali.
All’accesso alla giustizia, alla protezione della persona e alla libertà di movimento.
All’educazione inclusiva, alla salute, al lavoro, all’abilitazione e alla riabilitazione.
Al rispetto della vita privata, del domicilio e della famiglia e alla vita indipendente.
Alla partecipazione alla vita culturale e pubblica, alle attività ricreative, del tempo libero e allo
sport.
Le linee giuste per venire incontro a questo bisogno sono l’incremento della conoscenza e
consapevolezza, che porta all’abbattimento del pregiudizio, la creazione di politiche atte a creare
condizioni di vita migliori, e la creazione di ambienti di apprendimento sul modello dell’Universal
design, non pensati solo per la disabilità, ma basati sull’idea che qualcosa che può essere utile per
uno può anche essere utile per tutti.
Con la Classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute (ICF,
2001) si inizia a concepire funzionamento e disabilità come un’interazione tra condizioni di salute e
fattori contestuali, quindi ci si allontana dalla concezione biomedica secondo cui certe condizioni
dell’individuo siano immutabili e si inizia a capire che il funzionamento diverso richiede solo modi
diversi di raggiungere una determinata soluzione. Sono fondamentali in questo l’attività e la
partecipazione, intese come la capacità di agire vera e propria e il modo in cui si agisce, se
veramente partecipativo e presente. Per questo sono stati strutturati il PF (Profilo di funzionamento)
e PEI (Piano educativo individualizzato), che hanno lo scopo di dare una direzione educativa,
cognitiva e in generale di vita all’individuo, che dovrebbe anche superare l’ambito scolastico, dato
che si tratta alla fine di un futuro progetto di vita.
Negli anni Ottanta del Novecento venne elaborato il Capability Approach dal filosofo ed
economista Amartya Sen e dalla filosofa Martha Nussbaum, tramite il quale veniva riconosciuta la
diversità di ogni individuo, al di dell’effettiva disabilità: era un modello universale, che valutava
l’importanza dell’individualità, al di di specifiche precise. I concetti elaborati erano quello di
funzionamento e capability, ma in termini diversi rispetto all’ICF: il funzionamento non erano
soltanto le azioni, ma anche gli stati della persona, quindi erano una gamma ampia e la loro messa
in atto dipendeva dalle capabilities di un determinato individuo (capability set). Questo approccio si
concentra sulla possibilità di scelta delle persone disabili e della loro valutazione anche di ciò che
1
lOMoARcPSD|1644929

Visualizza gratis il Pdf completo

Registrati per accedere all’intero documento e trasformarlo con l’AI.

Anteprima

La prospettiva dell'inclusione sociale: ospitare o includere?

Negli ultimi decenni il percorso i persone con disabilità è fortemente migliorato, sebbene si potrebbe obiettare che non sia abbastanza: in ogni caso è innegabile che ci siano stati dei netti miglioramenti rispetto al passato. La prospettiva con cui guardare la realtà oggi dovrebbe essere quella del binomio ospitalità-inclusione: qual è la differenza? La prima non rende parte di un contesto le persone, ma semplicemente le fa sentire a loro agio nel luogo in cui sono, pur non rendendoglielo - di fatto - proprio. La seconda, invece, mira proprio a rendere la scuola, i negozi, qualunque parte del mondo un luogo che possa dirsi tanto dei neurotipici quanto dei neurodiversi. Come viene concepita la disabilità rispetto al resto del mondo? Il fatto che i soggetti disabili abbiano difficoltà nel vivere del mondo non dipende dalla loro disabilità, ma dal fatto che statisticamente il mondo sia composto da persone "normali" e di conseguenza il mondo sia costruito a immagine delle persone "normali". Se il mondo fosse stato prevalentemente disabile, oggi i cosiddetti "normali" avrebbero grandi difficoltà a viverci. Di fatto, la prospettiva moderna cerca di trasmettere questo messaggio, ovvero che i problemi non sono dei disabili, ma degli ambienti e delle persone che non sono in grado di accoglierli. Nella Convenzione sui diritti delle persone con disabilità delle Nazioni Unite del 2006 vengono analizzati ambiti diversi, legati ai diritti umani:

  • Alla vita, allo sviluppo, alla libertà, all'espressione e alla sicurezza personali.
  • All'accesso alla giustizia, alla protezione della persona e alla libertà di movimento.
  • All'educazione inclusiva, alla salute, al lavoro, all'abilitazione e alla riabilitazione.
  • Al rispetto della vita privata, del domicilio e della famiglia e alla vita indipendente.
  • Alla partecipazione alla vita culturale e pubblica, alle attività ricreative, del tempo libero e allo sport.

Le linee giuste per venire incontro a questo bisogno sono l'incremento della conoscenza e consapevolezza, che porta all'abbattimento del pregiudizio, la creazione di politiche atte a creare condizioni di vita migliori, e la creazione di ambienti di apprendimento sul modello dell'Universal design, non pensati solo per la disabilità, ma basati sull'idea che qualcosa che può essere utile per uno può anche essere utile per tutti. Con la Classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute (ICF, 2001) si inizia a concepire funzionamento e disabilità come un'interazione tra condizioni di salute e fattori contestuali, quindi ci si allontana dalla concezione biomedica secondo cui certe condizioni dell'individuo siano immutabili e si inizia a capire che il funzionamento diverso richiede solo modi diversi di raggiungere una determinata soluzione. Sono fondamentali in questo l'attività e la partecipazione, intese come la capacità di agire vera e propria e il modo in cui si agisce, se veramente partecipativo e presente. Per questo sono stati strutturati il PF (Profilo di funzionamento) e PEI (Piano educativo individualizzato), che hanno lo scopo di dare una direzione educativa, cognitiva e in generale di vita all'individuo, che dovrebbe anche superare l'ambito scolastico, dato che si tratta alla fine di un futuro progetto di vita. Negli anni Ottanta del Novecento venne elaborato il Capability Approach dal filosofo ed economista Amartya Sen e dalla filosofa Martha Nussbaum, tramite il quale veniva riconosciuta la diversità di ogni individuo, al di là dell'effettiva disabilità: era un modello universale, che valutava l'importanza dell'individualità, al di là di specifiche precise. I concetti elaborati erano quello di funzionamento e capability, ma in termini diversi rispetto all'ICF: il funzionamento non erano soltanto le azioni, ma anche gli stati della persona, quindi erano una gamma ampia e la loro messa in atto dipendeva dalle capabilities di un determinato individuo (capability set). Questo approccio si concentra sulla possibilità di scelta delle persone disabili e della loro valutazione anche di ciò che 1possono e vogliono fare, anche laddove non ci sia una richiesta effettiva, bisogna comunque creare un contesto che permetta di scegliere. Il fulcro del ragionamento è legato all'autodeterminazione, un concetto di cui avevano parlato per la prima volta Deci e Ryan, che l'avevano definita come la capacità di scegliere tra varie possibilità. Venne strutturato un modello funzionale di autodeterminazione dove il comportamento autodeterminavo dipendeva sostanzialmente da tre fattori interconnessi (capacità, sostegni e opportunità), dove capacità dipendeva da apprendimento e opportunità da esperienze. Questo è un punto cruciale perché nei ragazzi con ADS o DI sono complesse sia le capacità (perché spesso fortemente compromesse) sia le opportunità perché nei fatti non sono presenti dei sistemi che permettano davvero questa autodeterminazione. La possibilità che le persone disabili riescano a crearsi un'identità dipende unicamente dall'esterno e dall'accoglienza che una società neurotipica riesce a costruire: il problema non sta tanto nel principio generale di accoglienza, ma nella capacità di percepire una diversità come normalità, nel senso di non riuscire più a distinguere le diversità in quanto familiari. Una teoria interessante in merito è quella delle "rappresentazioni sociali", secondo cui si riesce ad accettare qualcosa di diverso solo quando lo si incasella e relaziona con qualcosa di già noto tramite il sistema dell'ancoraggio e dell'oggettivazione. Il primo lo integra nel sistema di pensiero rendendolo familiare, mentre il secondo gli dà una rappresentazione concreta e chiara, facendola diventare comprensibile: in realtà, questo è il modo in cui noi "inquadriamo" le persone, in sostanza, dando loro anche dei caratteri stereotipati. Questa analisi è interessante perché permette di capire il rapporto della società con la disabilità e di conseguenza fornisce i mezzi per creare un'inclusione teorica, pratica e funzionale.

PAGINA 24-25.

Il paradigma della qualità della vita: che cosa significa una vita di qualità per le persone con disabilità?

Il concetto di Qualità della Vita (QdV) è molto complesso perché nell'incasellarlo il rischio è sempre quello o di ridurlo a un solo aspetto o di estenderlo a troppi aspetti e renderlo pertanto impraticabile: è importante tracciarne quindi un quadro e capire in che modo questo concetto sia nato, si sia evoluto e quali siano le prospettive attuali con cui rapportarsi ad esso. Inizialmente, prima degli anni cinquanta del Novecento, il conto di QdV era solo inteso biologicamente come assenza di malattia e pertanto non esisteva una qualità della vita piena per coloro che erano "malati" o affetti da una qualunque sindrome e disturbo. Con la Dichiarazione fondata dell'Organizzazione mondiale della sanità (1948) finalmente la QdV iniziò ad essere intesa come uno stato di benessere fisico, mentale e sociale, quindi mise in primo piano l'aspetto positivo e sopratutto tralasciò la parte biologica. Dagli anni Sessanta iniziò a esserci molto interesse per questo tema, soprattutto perché dal punto di vista sanitario ci si concentrava molto sui sintomi delle patologie, trascurando il resto, e la svolta avvenne negli anni Ottanta quando si iniziò a prediligere gli aspetti di benessere sociale inteso come reddito, livello di occupazione, condizioni abitative, servizi ricreativi, ecc. Sulla fine degli anni Ottanta si postò l'attenzione dal benessere oggettivo a quello soggettivo, quindi ciò che l'individuo percepiva personalmente: da una parte è un aspetto importante, perché dà identità e autodeterminazione all'individuo, ma dall'altra non è detto che condizioni soggettivamente felici lo siano anche nella realtà. Bisogna riuscire a creare una linea mediana tra questi due approcci. È particolarmente interessante il modello di QdV elaborato negli anni Ottanta da Schalock e Verdugo Alonso, un modello multidimensionale (8 domini) che rispondono a quelle che sono le esigenze evidenziate dagli studi (vd. tutti gli schemi da 35 a 39): 2 Scaricato da Paola Uberti (paola.uberti90@gmail.com)

  1. Benessere emozionale: soddisfazione di sé, stato d'animo positivo, buon rapporto con il mondo.
  2. Relazioni interpersonali: interazioni con gli altri.
  3. Benessere materiale: possesso di mezzi di sostentamento adeguati.
  4. Sviluppo personale: progressiva acquisizione di abilità e competenze.
  5. Benessere fisico: condizione di buona salute fisica, alimentare, ecc.
  6. Autodeterminazione: capacità di trovare e soddisfare i propri bisogni.
  7. Inclusione sociale: sentirsi parte di un gruppo e comunità.
  8. Diritti: benefici e tutela nella società e mondo.

Questi domini sono organizzati secondo 3 fattori, che sono indipendenza, partecipazione, benessere, e si suddividono su tre differenti contesti di vita:

  1. Microsistema: crescita personale e opportunità di sviluppo, che può avvenire solo grazie ad un aumento delle possibilità di agire nella propria vita, ad una collaborazione tra persone e operatori, a un coinvolgimento maggiore degli interessati, una forte direttiva nell'erogazione dei sostegni.
  2. Mesosistema: programmi e tecniche di miglioramento ambientale, ovvero la progettazione di spazi fruibili.
  3. Macrosistema: politiche sociali, quindi ciò che viene fornito a livello normativo di servizi.

Ovviamente il miglioramento in un sistema non garantisce la generalizzazione in un altro perché se nel piano personale una persona riesce a ottenere determinati obiettivi, ma lo spazio esterno non è in grado di accogliergli restano limitati a quel sistema. Questo modello è ancora più utile se integrato a quello di Renwick e Brown (1996), secondo cui i domini vanno riletti pensando a come agiscono e migliorano tre ambiti di vita:

  1. Essere: l'individualità di una persona (scolastiche, lavorative, fisiche, valoriali).
  2. Appartenere: riguarda ambiente, risorse e interazioni familiari e sociali.
  3. Divenire: evoluzione della vita in ambito pratico, ricreativo, ecc.

Questo vale sia per individui più giovani, che per individui adulti, dove la necessità diventa maggiore in quanto oggettivamente mancano molti servizi pubblici. Il quadro emerso in questo capitolo ha lo scopo di identificare un processo e un progetto scientifico con cui creare un piano per le persone con disabilità, a partire dal PEI, da estendere poi anche fuori dal sistema scolastico. Esistono strumenti in letteratura per la valutazione della QdV che sono Quality of life - Questionnaire, Scala San Martin, Personal Outcomes Scale, Quality of Life Instrument Package. Per la valutazione finale degli esiti è utile Supports Intensity Scale, che valuta in base ai bisogni di quanto aiuto possa necessitare un individuo. In questo senso il modello sistemico della QdV ha quindi lo scopo sia di valutare gli esiti del sostegno finalizzato all'inclusione, NON alla sopravvivenza, sia di essere proprio utilizzato come un modello di intervento, come fine e mezzo (VD. 42-43).

L'educatore professionale socio-pedagogico come professionista inclusivo: basta avere disponibilità, buon senso e un grande cuore per fare l'educatore?

Ci sono due convinzioni radicate molto pericolose che sono quella che l'educatore sia un lavoro da competenze generiche e che per farlo basti avere tanto buon cuore, questo perché abbiamo 3

Non hai trovato quello che cercavi?

Esplora altri argomenti nella Algor library o crea direttamente i tuoi materiali con l’AI.